Carbonio

Da Il Sistema Periodico (1975), di Primo Levi (Torino, 1919-1987)

 

 

Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto, “ma voix est foible, et même un peu profane”. Non è neppure un autobiografia, se non nei punti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. E’, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del Sistema Periodico, o agli indici monumentali del Beilstein o del Landolt, non vi ravvisa sparsi i tristi brandelli, o i trofei del propri passato professionale ? Non ha che da sfogliare un qualsiasi trattato, e le memorie sorgono a grappoli: c’è fra noi chi ha legato il suo destino, indelebilmente al bromo, o al propilene, o al gruppo –NCO o all’acido glutammico; ed ogni studente in chimica, davanti a un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga, o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari “poi”: dopo il successo o l’errore o la colpa, la vittoria o la disfatta. Ogni chimico non più giovane, riaprendo alla pagina “verhängnisvoll” quel medesimo trattato è percorso da amore o disgusto, si rallegra o dispera.

Così avviene, dunque, che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza: si deve forse fare un’eccezione per il carbonio, perché dice tutto a tutti, e cioè non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato; a meno che non si trovi oggi (perché no?) il chimico-stilita che ha dedicato la sua vita alla grafite o al diamante. Eppure, proprio verso il carbonio ho un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi. Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio.

E’ lecito parlare di “un certo” atomo di carbonio? Per il chimico esiste qualche dubbio, perché non si conoscono fino ad oggi (1970) tecniche che consentano di vedere, o comunque isolare, un singolo atomo; nessun dubbio esiste per il narratore, il quale pertanto si dispone a narrare.

Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e a uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle ma la ignoreremo. Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatura, giornaliere e stagionali, se, per la fortuna di questo racconto, la sua giacitura non è troppo lontana dalla superficie del suolo. La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni (sempre di ugual frequenza) un po’ più strette o un po’ più ampie: una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell’inferno cattolico. A lui, fino a questo momento, si addice il tempo presente, che è quello della descrizione, anziché uno dei passati, che sono i tempi di chi racconta: è congelato in un eterno presente, appena scalfito dai fremiti moderati dell’agitazione termica.

Ma appunto per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe finito di raccontare, il banco calcareo di cui l’atomo fa parte giace in superficie. Giace alla portata dell’uomo e del suo piccone (onore al piccone e ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tutt’ora i più importanti intermediari nel millenario dialogo fra gli elementi e l’uomo): in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro arbitrio essere nell’anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l’avvio verso il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano. Venne arrostito affinché si separasse dal calcio, il quale rimase per così dire con i piedi per terra e andò incontro a un destino meno brillante che non narreremo; lui, tuttora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell’aria. La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa.

Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Si scolse per tre volte nell’acqua del mare, una volta nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni, ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica.

Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l’elemento chiave della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato, chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. Se l’organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia le spetterebbe a pieno diritto il nome di miracolo. L’atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell’anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di essere inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è solo per mia ignoranza: questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato ancora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell’altra chimica “organica” che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell’uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata “inventata” due o tre miliardi d’anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono. Se comprendere vale farsi un’immagine, non ci faremo mai un’immagine di uno happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l’altra: valga quindi la seguente.

Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di azoto e ossigeno. Aderisce a una grossa e complicata molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal cielo sotto la forma folgorante di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione dell’atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo “sicut Deus”, ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo.

Ma c’è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte. L’anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio, di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vitala scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell’aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un’”impurezza” trenta volte meno abbondante dell’argon di cui nessuno si accorge. L’aria ne contiene il 0,03 per cento: se l’Italia fosse l’aria, i soli italiani abilitati ad edificare la vita sarebbero ad esempio i 15000 abitanti di Milazzo, in provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un’acrobazia ironica, uno scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di onnipotenza-prepotenza, poiché da questa sempre rinnovata impurezza dell’aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se l’intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le terre emerse, la “statura dell’uomo” non sarebbe visibile a occhio nudo; lo spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di millimetro.

Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. E’ una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri con l’acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della vita, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le sostanza che sono destinate a (stavo per dire “desiderano”) trasformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perché un anello, e perché esagonale, e perché solubile in acqua, ebbene, si dia pace: queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina sa rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo qui.

E’ entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino ne carne ne pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto con il mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità più alta, che è quella di far parte di un edificio proteico. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non lo sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione alcoolica, e giunse al vino senza mutare natura.

E’ destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più di una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla corrente del sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole di acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l’ansito dei polmoni poté procurare l’ossigeno necessario ad ossidare con calma quest’ultimo. Così una nuova molecola di anidride carbonica ritornò all’atmosfera, ed una parcella dell’energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nell’ignava condizione di calore, riscaldando impercettibilmente l’aria smossa dalla corsa e il sangue del corridore. “così è la vita”, benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida.  

Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo: se ne possono immaginare o inventare altri, ma sulla terra è così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e l’Adriatico, la Grecia l’Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete. L’atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. Non è più la fissità allucinante e geologica della roccia, non sono più i milioni di anni, ma possiamo bene parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. E’ in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per cinquecento: diremo che dopo vent’anni (siamo nel 1868) se ne occupa un tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la corteccia, con la voracità cieca e ostinata della sua razza; trapanando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato e incastonato in se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera sotto forma di brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata e abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là , in uno dei mille occhi dell’insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L’insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una “cosa”, ma la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili e invisibili becchini del sottobosco, i microrganismi dell’humus. La corazza, con i suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l’ex bevitore, l’ex cedro, ex tarlo, ha nuovamente preso il volo.

Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura umana faremo notare che esso è assai più breve della media: questa, ci si assicura, è di duecento anni. Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. Esistono alte porte? Sì, alcune sintesi create dall’uomo; sono un titolo di nobiltà per l’uomo-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa è trascurabile. Sono porte ancora molto più strette di quella del verde vegetale: consapevolmente o no, l’uomo non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall’anidride carbonica dell’aria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e per i cento altri bisogni più sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché non ne ha avuto bisogno: ha trovato, e tuttora trova (ma per quanti decenni ancora?) gigantesche riserve di carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la fotosintesi non è solo l’unica via per cui il carbonio si fa vivente, ma anche al sola per cui l’energia del sole si fa utilizzabile chimicamente.

 

Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato;  di altri che raggiungono invece una decorosa semi-eternità nelle pagine ingiallite di qualche documento d’archivio, o nella tela di un pittore famoso; di quelli a cui toccò il privilegio di far parte di un granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nelle rocce per la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei misteriosi messaggeri di forma del genere umano, e parteciparono al sottile processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato. Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza.

E’ di nuovo tra noi, in un bicchiere di latte. E’ inserito in una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accetti al corpo umano. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, e i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. E’ quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa si che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.